31.12.08

Piovono bombe

Piovono bombe dal cielo di Gaza.
Bombe molto intelligenti, destinate a scovare ed annientare i pericolosi terroristi (molti dei quali sono anziani e bambini) appartenenti al movimento politico che ha vinto regolari elezioni: Hamas.
Daranno a Israele la tanto agognata "sicurezza"?





Facciamo un passetto all'indietro.
Cos'è Gaza? Edward Said, l'intellettuale pacifista, fondatore con Daniel Barenboim della West-Eastern Divan Orchestra, la definisce come una grande gabbia per animali, circondata da tre lati da filo elettrico, spazzata dai raid dell'aviazione israeliana, esposta ai tiri dei carri armati, senza possibilità di scampo. Una specie di grande ghetto dal quale non si può uscire, isolato dal resto del paese. Se poi l'Egitto chiude il valico di Rafah, allora si trasforma in una trappola mortale.
I politici e l'opinione pubblica, in Europa e Nordamerica, ci restituiscono un'immagine del successo di Hamas in questo territorio come una piaga islamista da estirpare con decisione per trovare una soluzione pacifica per questa zona. Ma per poter credere a questa favola occorre davvero essere ingenui/e, o non aver mai seguito gli avvenimenti di questi anni in Medioriente.
Nel 1993 Arafat firmò con Shimon Peres gli Accordi di Oslo. Questi si basavano unicamente sulla risoluzione 242 delle Nazioni Unite, la quale riconosceva solo i diritti degli Stati esistenti, senza alcun riconoscimento dei diritti nazionali dei palestinesi garantiti da altre risoluzioni della stessa ONU. Anche il ritiro dai territori occupati non ricevette alcuna garanzia dall'accordo, rimanendo completamente a discrezione di Israele e USA. In cambio della firma, Arafat ed il suo gruppo di potere godettero dei privilegi della creazione dell'ANP e poté opporsi efficacemente alle istanze democratiche che si stavano sviluppando all'interno della nazione palestinese. Ma nella sostanza il popolo palestinese era stato svenduto. Quale follia spinse a credere che avrebbe accettato passivamente tutto questo?
E allora fu la fine di decenni di attesa di riconoscimento, di possibilità di vita, di giustizia. Fu l'intifada e fu l'inizio del successo di un movimento politico e militare che dava voce a questo grido e dimorava tra la gente, invece di esercitare briciole di potere contro gli oppositori politici e dilapidare i fondi nel suo lontano quartier generale di Rāmallāh, in Cisgiordania.
E che dire della speranza rappresentata per un periodo dalla "Road Map"? Fu un tentativo serio da parte di una parte qualitativamente rilevantissima del mondo israeliano ebraico di dialogare con i palestinesi e di riconoscerne il diritto ad uno stato. Al tempo stesso, però, sanciva ancora una volta che la pacificazione dei due popoli poteva passare solo attraverso un colpo di spugna al passato e la presa d'atto dello status quo. Scrive Edward Said (AA.VV., The politics of antisemitism, a cura di Alexander Cockburn e Jeffrey St. Clair, CounterPunch and AK Press, 2003):
La road map non è un piano di pace, ma piuttosto un piano di pacificazione, per mettere fine al problema Palestina. Ecco il perché della ripetizione del termine "performance" nel documento, ossia quale comportamento si pretende dai Palestinesi. Basta con la violenza, basta con le proteste, più democrazia, migliori leaders ed istituzioni, il tutto basato sul principio che il problema che sta all'origine è la ferocia della resistenza palestinese, e non l'occupazione che l'ha generata. Israele non è accusato di nulla di simile, fatta eccezione per pochi piccoli insediamenti, definiti "avamposti illegali" (recentissima classificazione che sta a suggerire che ci sono insediamenti legali in terra palestinese) che devono essere eliminati e, certo, insediamenti più grandi che devono essere " congelati", ma sicuramente non smantellati. Non una parola su quanto, a partire dal 1948, e di nuovo dal 1967, i Palestinesi hanno dovuto subire per mano di Israele e degli USA. Non una parola sul soffocamento dell'economia palestinese, sulla demolizione delle case, lo sradicamento di alberi, i 5000 e più prigionieri (ogni palestinese è diventato un prigioniero [...]), non una parola sulla politica degli assassinî mirati, non una parola sui posti di blocco insediati a partire dal 1993, sulla totale distruzione delle infrastrutture, l'incredibile numero di morti e mutilati: non una parola su tutto questo.
Tra i promotori di questa iniziativa ci fu il grande scrittore Amos Oz.
Ecco cosa pensa oggi della situazione in atto (dal Corriere della Sera):
Gaza è stata sequestrata da una banda di estremisti islamici che si muovono sulla falsariga dei talebani e sono sostenuti dall’Iran, il quale a sua volta da tempo proclama la necessità di perpetrare un grande genocidio ai danni di Israele. La Cisgiordania è controllata dall’Autorità palestinese, che si è dimostrata pragmatica e moderata. Detto ciò, va però anche ricordato che Gaza resta un luogo di immense povertà, disperazione e miseria. Ed appare dunque ancora più assurdo e tragico che questa comunità di profughi palestinesi sia controllata da un gruppo di cinici assetati di guerra dediti alla causa della distruzione di Israele e che considerano qualsiasi cittadino israeliano come una loro vittima più che legittima.
Con buona pace di Oz, 10 anni fa un giornalista chiese a Ehud Barak cosa avrebbe fatto se fosse nato palestinese, ed egli rispose "Mi sarei unito ad un'organizzazione terroristica".
Ancora, nella catastrofe umana dei bombardamenti nella striscia di Gaza, ecco la reazione della Casa Bianca dello scorso 29 dicembre, come riportata dall'agenzia ANSA:
(ANSA)-WASHINGTON, 29 DIC -La Casa Bianca ha detto oggi che Hamas deve cessare di lanciare razzi contro Israele e deve accettare di rispettare una tregua "durevole". La Casa Bianca ha aggiunto che Hamas "ha mostrato la sua vera natura di organizzazione terrorista". Il portavoce Johndroe ha detto che Hamas "ha violato per mesi la tregua" lanciando razzi contro Israele e ha concluso dicendo che una "tregua durevole e praticabile" deve adesso essere il traguardo principale delle parti coinvolte nel conflitto.

Voglio mettere in evidenza come questo atteggiamento pesantemente unilaterale, e di conseguenza qualsiasi tipo di piano di pacificazione finora considerato praticabile dalle potenze mondiali, sottendano il principio del vae victis, le legge immutabile del più forte. Ma a partire dal Vietnam, e come hanno dimostrato le recenti campagne di guerra in Afghanistan ed Iraq, popolazioni sconfitte, schiacciate e condannate a morte lenta rimangono fastidiosi irriducibili sassolini nelle scarpe dei vincitori.
Non è più il tempo della Pax Romana. Quello che è messo qui in discussione è la validità e forza del (neo-neo-)colonialismo attuale. Ancora Said (L'umanesimo, ultimo argine contro la barbarie, Le monde diplomatique-Manifesto, settembre 2003):
C'è una profonda differenza tra il desiderio di comprendere altre culture per convivere con esse e allargare i propri orizzonti, e la volontà di dominarle e controllarle. Oggi stiamo sicuramente vivendo una delle catastrofi intellettuali della storia.
.:===:.